Intervista al mago della laparoscopia, Franco Corcione

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Su Il Mattino di oggi compare una lunga e ben articolata intervista di Maria Chiara Aulisio al professor Franco Corcione, primario della divisione di Chirurgia generale del Monaldi e presidente della Società italiana di Chirurgia.

Sappiamo che il professor Corcione vanta tantissimi estimatori anche tra i nostri lettori, per cui riteniamo di fare cosa gradita a molti riproponendo l’intervista integrale sul nostro sito:

Cristiano Huscher, il «chirurgo dei casi disperati», quattro specializzazioni, migliaia di interventi e altrettante vite salvate in Italia e all’estero, alla provocazione di un giornalista che recentemente gli ha chiesto chi avrebbe voluto trovare in sala operatoria se sotto i ferri fosse finito lui, ha risposto secco: «Franco Corcione e Gianluigi Melotti, chirurghi al Monaldi di Napoli e al Sant’Agostino Estense di Modena». Huscher, anzi il professor Cristiano German Sigmund Huscher, è un personaggio a tratti singolare per le sue battaglie professionali e, dunque, anche piuttosto discusso, ma ciò non toglie che sia universalmente considerato il mago del bisturi: nella comunità scientifica il suo giudizio pesa, eccome se pesa. A parte Gianluigi Melotti (che è leader europeo nel suo campo ma opera a Modena), qui si parla del professor Franco Corcione, napoletano doc, direttore della divisione di chirurgia generale del Monaldi e indiscusso pioniere delle più innovative tecniche laparoscopiche.Classe ’52, folti baffi su un viso perfettamente rasato in risposta a una barba sempre più inflazionata, il presidente della Società italiana di chirurgia sorride, mette a bordo i complimenti, ringrazia l’autorevole collega ma non cede alle lusinghe.

Bel complimento, però.
«Altroché. Detto da lui, la più bella mano del mondo, non può che farmi piacere. Ma i riconoscimenti che mi gratificano di più sono altri».
Quali?
«Quelli di chi sul mio tavolo operatorio ci finisce davvero».
I pazienti?
«Certo».
Che rapporto ha con loro?
«Ottimo. Anche se devo ammettere che negli ultimi tempi è in generale molto cambiato».
In che senso?
«Nel senso peggiore».
Perché?
«Consensi informati, dispute, contenziosi legali… Basta niente per finire in tribunale».
Troppe denunce?
«Anche quando non ce ne sarebbe ragione. Da qui una chirurgia che diventa sempre più difensiva, solo a danno degli ammalati che, alla fine, sono quelli che ne pagano le spese».
Sta dicendo che per paura di finire in tribunale i medici non fanno quello che dovrebbero?
«Non sto dicendo questo. La realtà è un’altra».
Quale è?
«È quella che se un chirurgo deve rischiare in prima persona per salvare situazioni disperate non sempre è disponibile a farlo. E questo, per me, rappresenta la fine dell’evoluzione chirurgica e del rapporto medico paziente».
Si spieghi meglio.
«Lo faccio con un esempio: se c’è un ammalato da sottoporre a un intervento particolarmente complesso, dall’esito incerto e ad alto rischio, andiamo a vedere quanti chirurghi ci mettono le mani».
Quanti?
«Quasi nessuno. E vagli a dare torto. Passi dieci ore in sala operatoria, fai tutto il possibile per ottenere il miglior risultato e alla fine rischi pure la causa, spesso per qualcosa che non dipende neanche da te. Così finisce che in tanti dicono: “ma chi me lo fa fare?”».
Meglio non operare, quindi?
«Non lo chieda a me».
Perché?
«Intervengo sempre e comunque. Non riuscirei a fare diversamente: ho un paziente a cui posso provare a salvare la vita e non lo faccio per non rischiare? Impossibile, mi facessero pure causa».
Senza paura.
«Dico spesso che il chirurgo, quello vero, è uno strano animale. Ha un innato senso del dovere verso gli altri, sente sempre la necessità di dare loro qualcosa, a tutti i costi».
Quasi un missionario, insomma.
«No. Ma certamente un uomo che vive di grandi responsabilità, umane e materiali, rispetto alle quali non si può mai tirare indietro».
Chi è il bravo chirurgo?
«Quello che in pochi istanti di secondi è capace di prendere una decisione dalla quale dipenderà la vita o la morte di una persona».
Istanti di secondi?
«Proprio così. Se mentre stai operando si lacera una vena importante non hai alternative: o decidi che cosa fare in tempo reale o il paziente se ne va».
Lucidità e freddezza, dunque.
«Ma anche razionalità e intuizione. In molti casi non esiste una seconda chance. La scelta che fai deve essere quella giusta, l’errore non è previsto. Il bravo chirurgo ha un solo obiettivo».
Quale?
«Concludere l’atto chirurgico nel migliore dei modi e nel minor tempo possibile».
Questione di pratica?
«Non basta. A far la differenza c’è sempre quel quid in più che va oltre i libri e oltre la pratica. L’esempio che preferisco è quello dei calciatori».
Dica.
«Si allenano allo stesso modo ma non per questo in campo sono tutti uguali. Il fuoriclasse è uno, e non è solo una questione di gambe. Il talento è innato: o c’è o non c’è».
Lei ha talento?
«Non sta a me dirlo».
Il professor Huscher lo ha detto.
«Negli anni, devo ammetterlo, ho avuto molti riconoscimenti. Da parte dei pazienti naturalmente, ma anche dei colleghi. Faccio parte dell’Ircad di Strasburgo, uno dei maggiori centri di ricerca chirurgica del mondo, anche lì, non lo nascondo, mi sono tolto parecchie soddisfazioni. Ma il mio fiore all’occhiello sono i giovani».
I giovani?
«Sì, quelli che vogliono fare i chirurghi e chiedono di venire a specializzarsi da me al Monaldi. Arrivano da tutte le parti del mondo: Spagna, Inghilterra, Argentina, Brasile, Vietnam…».
Un maestro, insomma.
«Non si finisce mai di imparare, ci tengo a dirlo, ma vi assicuro che tutto quello che so fare cerco di insegnarlo a chi ha voglia di fare questo mestiere. La mia è una squadra fortissima, chiedetelo a Diego Cuccurullo e Felice Pirozzi, due ex allievi che mi seguono ancora da anni».
Allievi in primo piano, quindi.
«È il mio impegno per il futuro. Lo hanno fatto con me, lo faccio per gli altri».
Chi lo ha fatto con lei?
«Ho avuto due grandi maestri: Giuseppe Califano e Jean Rives, il primo, alla Federico II, mi ha insegnato ad avere coraggio, il secondo, all’università di Reims, a essere lucido e razionale. A loro devo gran parte di ciò che sono».
Solo a loro?
«Forse no».
A chi altro?
«A Maria Rosaria, mia moglie».
Che c’entra sua moglie?
«Se non ci fosse stata lei accanto a me non sarei riuscito ad arrivare fin qui. Abbiamo sempre condiviso tutto, momenti belli e brutti, ha tirato su due figli nel migliore dei modi con la consapevolezza e i sacrifici di chi sa di aver sposato un chirurgo».
Il chirurgo non è un buon marito?
«Certo che lo è. Quando c’è. Il nostro è un lavoro totalizzante che mal si concilia con la cosiddetta vita normale. Mia moglie non solo lo ha capito subito, ma ha sempre fatto di tutto per semplificarmi la vita».
In che modo?
«Occupandosi della famiglia, accudendo i nostri due figli, Carlo e Annalisa».
Un futuro da chirurgo anche per loro?
«Tutt’altro. Il primo è avvocato, vive e lavora a Londra, la seconda è farmacista. No, niente chirurgia, i ragazzi hanno preso altre strade, ma va bene così. Sono bravi e appassionati del loro lavoro».
Ha mai operato un familiare, un amico…
«Proprio mia moglie».
Bella freddezza.
«Devo ammettere che un momento di esitazione l’ho avuto».
Quando?
«Prima dell’anestesia. Ma nell’attimo in cui si è addormentata, e l’abbiamo coperta con il telo, è svanita ogni emozione: è diventato un paziente come gli altri».
Dica la verità: ci ha messo più attenzione.
«No, vi assicuro. L’ho operata esattamente come chiunque altro».
Abilità a parte, è vero che il suo reparto è uno dei più avanzati dal punto di vista tecnologico?
«Siamo stati i primi a praticare la chirurgia robotica in laparoscopia. Conosciamo a fondo tecniche e apparecchiature, le aziende ci mettono a disposizione le ultime novità per farle conoscere in giro».
Vi usano per farsi pubblicità?
«Sì. E noi gliela facciamo molto volentieri quando in cambio ci offrono il meglio delle più moderne tecnologie».
Ma è vero che fa tutto il robot?
«Certo, premiamo un pulsante e poi ci andiamo a prendere il caffè… Non scherziamo, gli strumenti sono indispensabili ma a muoverli c’è sempre la mano del chirurgo, ferma e abile, e ancor prima una mente che muove quella mano. È vero invece che la laparoscopia ha cambiato la vita dei chirurghi e quella dei pazienti».
Sarà per questo che la grande scuola di chirurgia napoletana ha perso il suo prestigio? Troppa modernità rispetto a un approccio ancora antico?
«Non è così, Napoli vanta sempre grandi eccellenze. Diciamo che si registra qualche difficoltà a stare al passo con i tempi. D’altronde oggi è inimmaginabile pensare di fare chirurgia senza robot, il vero potere è nella tecnologia».
Quindi lei è un uomo di potere?
«Se per potere si intende quello sulla vita di chi ha bisogno di te, la risposta è sì. Diversamente proprio no».
Ultima domanda: la stessa alla quale il professor Huscher ha risposto che in sala operatoria vorrebbe trovare lei.
«Da chi mi farei operare?».
Esatto.
«Dipende dalla patologia».
Allora mettiamola così: non c’è tempo, è un’emergenza. Fuori un nome.
«La verità? Mi sento benissimo, ma perché dovrei pensare a ’sta emergenza?».

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