Don Carmine Giudici: Ecco perché lascio la Cattedrale di Sorrento

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Con una lunga lettera don Carmine Giudici spiega le ragioni che lo hanno spinto a lasciare la guida pastorale della Cattedrale di Sorrento per prendersi un anno sabbatico.

La pubblichiamo integralmente:

QUANDO SONO DEBOLE…
…è allora che sono debole
San Paolo la direbbe diversamente. Nella seconda lettera ai Corinzi scrive: “(il Signore) mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza “. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficolta, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.” (2 Cor 12)
Ma san Paolo è san Paolo e io non sono un (censura)… per parafrasare il marchese del Grillo!
Siamo seri. La verità è questa, è che sono debole e con la mia debolezza devo farci conti.
Forse la forza di cui parla l’apostolo è proprio quella che ti viene dalla consapevolezza delle tue fragilità e dalla loro accettazione. Forza che si manifesta pienamente nella debolezza. E debolezza che fa spazio alla Sua forza. E’ proprio qui che trovi la spinta per allargare l’estensione della tua liberta, e ti fermi e la smetti di contare solo sulle tue forze presunte, proiezioni di un’illusione che non può ingannarti per sempre.
In questa consapevolezza, che per la verità si fa spazio in me già da diversi anni, ho maturato la scelta, sofferta e non certo spensierata e disinvolta, di terminare il mio servizio di parroco della Cattedrale di Sorrento. Trent’anni in tre diverse parrocchie, quasi 15 da parroco in Cattedrale (compresi i primi “in solidum” con altri confratelli) sono tanti… A Sorrento poi! Gli stessi avvicendamenti nelle parrocchie sono fisiologici, necessari, fanno bene ai sacerdoti e alle comunità. Ne ho parlato e ne sto parlando, oltre che con il vescovo anche con quanti più da vicino mi hanno aiutato finora a “tirare la carretta”, in una vicinanza preziosissima e indispensabile, e credo sia arrivato il momento di parlarne a tutta la comunità con schiettezza ed il cuore aperto.
La mia debolezza, o se volete la mia stanchezza, tocca aspetti diversi di me, al netto di fratello asino (così san Francesco chiamava il suo corpo) che come per tutti fa doverosamente i conti con lo scorrere del tempo. Tocca la mia mente e i miei pensieri, la mia interiorità, i miei sentimenti, la mia fede… E questo per motivi diversi che provo a spiegare, in uno sforzo di condivisione che chiedo di accogliere con rispetto.

La solitudine del prete… la mia, la nostra solitudine
Intanto, per dirla con le parole di Paolo, le spine inflitte nella mia carne… per non farmi montare in superbia. Sempre nella seconda lettera ai Corinzi scrive: “Per questo, affinché io non monti in superbia, e stata data dalla mia carne una spina, un inviato di satana per percuotermi, perché io non monti in superbia”. Tranquilli, nessuna possessione o qualcosa che vi si assomigli (ci sono già troppe suggestioni disordinate anche nella nostra comunità in questo senso). Sarebbe tuttavia uno stupido esercizio di insipienza negare che la nostra vita debba fare i conti con chi prova ad allontanarci da Dio e dalla Verità. Chiamatelo satana, chiamatelo male, chiamatelo come volete ma e parte di noi, di tutti. O almeno di tutti quelli che vogliono “farsela con Dio”. Portarsi certe spine nella carne ti indebolisce troppo se non ci metti mano e cuore in tempo.
Laspina nella mia vita che forse più di altre mi ha ferito la chiamo con il suo nome: solitudine. E insieme ad essa ammaestramenti e addomesticamenti poco formativi e molto deformanti sul senso e la ricchezza della solitudine dei preti, suggestioni che ci fanno indossare vesti sontuose e corazze di autosufficienza, che non poche volte generano derive ridicole e allo stesso tempo pericolose di autoreferenzialità, se non addirittura di autocelebrazione.
Uno dei fari della mia vita di prete, don Lorenzo Milani, scriveva ad un suo amico sacerdote: “la gente viene a Dio solo se Dio ce la chiama. E se invece che Dio la chiama il prete (cioè l’uomo, ;J simpatico.. .) allora la gente viene all’uomo e non trova Dio”. E quando la solitudine inizia a pesare ci vuol veramente poco perché un prete attiri a se gli altri piuttosto che condurli a Dio.
Un osservatore della vita e dei disagi dei presbiteri, lo psichiatra Raffaele Iavazzo, scrive: “Solitudine, che e innanzitutto fisica, a cui si aggiunge quella di pensiero, l’essere dentro a una realtà in cui si deve rendere conto solo al proprio giudizio, fare affidamento solo alle proprie forze.”. Aggiunge Iavazzo: “Penso si debba spendere una parola di giustizia a favore dei sacerdoti, che, ridotti di numero, si trovano ad affrontare compiti crescenti, con sempre minor tempo per se stessi e per la propria cura e condannati ad essere stressati… si soffre e si fa soffrire, fino a perdere di vista le motivazioni iniziali, con la morte net cuore” (IL Regno 20/2023). Nel riportare queste riflessioni, magari non tutte condivisibili, non penso solo a me e alla mia condizione, ma anche a tanti sacerdoti ea tanti uomini e donne che in contesti totalmente diversi, come quelli familiari, fanno la medesima esperienza. Quante storie ci toccano!

Storie che toccano
La storia, gli eventi che scuotono la mia vitae la vita di tutti noi. Sono fatti e accadimenti che toccano la mia vita personale, come quella delle comunità che indegnamente ho provato a servire. Ma sono anche fatti e accadimenti che sembrano essere “lontani” da noi, che però si avvicinano e incalzano, oltre ogni inutile tentativo di presa di distanza, geografica o esistenziale che sia.
In questi anni di ministero in Cattedrale la porta quasi sempre aperta dell’ufficio parrocchiale e diventata una provocazione ed un approdo. Una provocazione per tanti passanti, spesso alla ricerca solo di un interlocutore con cui parlare un po’: quanta disperato bisogno c’è di un “tu” che ti ascolti!. Ma altrettanto frequentemente e stato l’approdo dove provare a far naufragare attese, ansie, paure, bisogni, povertà. Si fa quotidianamente l’esperienza della verità delle parole di Gesù “I poveri infatti Il avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me” (Mc 14,7) Quando ho chiesto di chiudere la lunga parentesi di collaborazione nella Caritas, anche quella durata circa 15 anni, queste parole mi risuonavano dentro un po’ minacciose ed un po’ rassicuranti. Uomini e donne che incroci e che ti mettono in croce inchiodandoti alla durezza di un legno nodoso e pesante che sei chiamato a portare con loro. E cos1 ti ritrovi come Simone ad essere un cireneo, tuo malgrado e spesso controvoglia, sequestrato e chiamato a portare croci che speravi non fossero le tue. La pesantissima stagione del Covid, con l’altrettanto pesante contraccolpo con cui si e scaraventata addosso alle spalle e alla vita di tanti. L’ingiusta sofferenza e la malattia di tante persone, che spesso si sentono “punite” non si capisce bene da quale dio e per quale maledizione incombente o deformazione religiosa. Guerre che si accendono e sterminano popoli già provati da secolari dannazioni. La solitarietà – estremizzazione della solitudine – piena di piaghe dei tanti anziani curvati sulla loro rassegnazione, solo in attesa della morte. La povertà all’ennesima potenza, quella dei nostri giovani, sempre più spesso destinatari dei nostri giudizi, e pregiudizi, delle nostre condanne e della nostra retorica ma non della nostra attenzione e della nostra amicizia. Le conflittualità, talvolta anche molto violente, in tante famiglie diventate piccoli inferni dove la quiete e stata definitivamente sfrattata. La ricerca disperata di un tetto sotto il quale coprirsi, di un supporto per situazioni di indebitamento esagerate, di un pasto caldo o di un vestito decente da indossare, di un aiuto per dipendenze dalle quali non si sa più come uscire… Un tempo provavo a mantenere emotivamente le distanze da tutto questo, adesso non ci riesco. Tutto questo pesa e mi spoglia. Anzi, facendomi scoprire con imbarazzo la mia impotenza e la mia nudità…

E si accorsero di essere nudi
E’ l’amara scoperta di Adamo ed Eva (Genesi 3), dopa aver provato ad essere come Dia, senza limiti ne proibizioni di sorta. Non vengono spogliati, sono già nudi. Soltanto che tale condizione, che fino a quel punto non provocava nessun imbarazzo e nessuna vergogna, diventa per loro una inedita condizione di vulnerabilità. Bisogna coprirsi. Oppure lasciarsi vedere per quello che si e…
Il “grande silenzio” impostoci dal Covid, tempo che poteva essere colto nella sua promettente fecondità ma che in fretta abbiamo voluto archiviare nelle profondità di un oblio impossibile, ha iniziato a far nascere in me questa fastidiosa consapevolezza (quanta vorremmo restare nell’incoscienza in tante situazioni!). Come se non bastasse mi sono ritrovato nudo e spogliato anche di coperte che scaldavano e proteggevano la mia vita, per quanta questa sguazzasse nel pantano dell’autosufficienza; in pochi anni questi “rifugi sicuri e amici fedeli”, come Il chiama il Siracide, sono scomparsi, dicono per proteggerci in un altro modo e dall’altra parte della siepe.
IL parroco della mia infanzia e della mia giovinezza don Pasquale, il vescovo Felice che mi ha ordinato prete e chiamato vicino come suo inquieto e ribelle collaboratore, il mio padrino di cresima Pasqualino e sua sorella Raffilina estensione della mia famiglia di sangue, la mia centenaria “compagna di banco” (di chiesa) Mafalda e le caramelle che mi passava furtivamente ogni sera al termine della Messa feriale, i miei amici rompiscatole e brontoloni di sempre Rosario e Carlo amati fin dentro le viscere, il mio santo rivale in questioni di tifo calcistico e in statura il piccolo martire Luigi…e tanti altri. Insieme a mio padre e mia madre, Carlo e Anna, cos) da me poco amati, così per me esageratamente amanti. Querce robuste e bellissime alla cui ombra trovavo frescura e riparo e che svolgevano con fedeltà la missione di non far franare la terra sotto i miei piedi e quelli di tanti, una dopa l’altra non sono più …
Un sacerdote chiamato ad una “prestazione”, quella dell’annuncio del vangelo de! Cristo crocifisso e
risorto, talvolta sente questa stessa chiamata una costrizione che gli sta stretta, soprattutto se la sequenza con la quale si viene spogliati di tutto e implacabile e mai sazia. Casa diro… cosa faro… come spiegherò il dolore e la sofferenza? Come coprirò la nudità degli altri se non riesco a nascondere la mia? Sara per questo che lo stesso Dia si muove a pietà verso Adamo ed Eva e dinanzi al loro imbarazzo per una nudità scoperta “fece all’uomo ea sua moglie tuniche di pelli e Il vestì”.

Tra prestazioni, impotenza e incertezze
“Quale chimera e dunque l’uomo? Quale stramberia, quale mostruosità, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio? Giudice di tutte le cose, debole verme della terra, depositario del vero, cloaca di incertezza e di errore, gloria e rifiuto dell’universo. Chi sbroglierà questo groviglio?” scriveva Blaise Pascal nei suoi Pensieri (n. 164). E’ quello che mi rinfaccia il mio essere prete, e prima ancora la mia umanità. E’ quello che ci rinfaccia la storia di tante donne e uomini che ti ritrovi, spesso senza averli scelti, compagni di strada.
Un po’ di anni fa la mia spavalderia giovanile, condita di dosi abbondanti di presunzione e di arroganza, mi relegava nell’illusione di aver capita tutto, di me, degli altri, finanche di Dia e della sua volontà su di me. Oggi, attrezzato di debolezza e nudità, sono poche ma preziosissime le certezze che restano, tra queste l’amore di tante persone.
Poi, per quanta riguarda me, Dia e il nostro rapporto, le case sembrano essersi fatte inaspettatamente complicate. Ricardo che giovanissimo animatore di Azione Cattolica in parrocchia osservavo nei corridoi de! centro parrocchiale un poster con un volto irenico ma poco ironico che guardando verso l’alto chiedeva: “Signore, cosa vuoi che io faccia?”; quell’immagine, oggi direi di un giovane piu rimbambito che estasiato, mi accompagnava e mi solleticava ogni volta che passavo di lì.
Poi gli studi, le scelte a cavallo dei miei 18/21 anni, i primi grandi turbamenti interiori ed esistenziali, la Sua Parola che continuava a provocarmi, il mio mettermi in gioco lasciandomi “incarcerare” per cinque anni in un seminario, l’entusiasmo dell’avvicinarsi del “fine pena” e delle tappe che venivano bruciate… fino alle ordinazioni diaconale e sacerdotale nel 1991. L’inquietudine e sempre stata una parte pesante e paradossalmente allegra di me.
E così oggi, a quasi 60 anni, una sfilza ricchissima e variegata di esperienze in 32 di sacerdozio, mi ritrovo ancora a chiedergli: Signore, cosa vuoi che io faccia? Cosa vuoi da me?
Pensavo che dal 23 novembre del 1991 la partita fosse chiusa… e invece.

Fai come Dio, diventa umano
Sempre Pascal scriveva: “Le grandezze e le miserie dell’uomo sono così palesi che necessariamente occorre che la vera religione ci insegni che c’è nell’uomo qualche grande principio di grandezza, e che c’è un grande principio di miseria. Inoltre, occorre che essa ci spieghi questi stupefacenti contrasti” (Pensieri n. 182). IL mio timore, soprattutto nelle cose religiose e in quelle della Chiesa, e che ci si affezioni troppo alla grandezza e troppo poco alla miseria. Sicuramente e stata una palude nella quale ho rischiato di affondare tante volte. Ma credo che il rischio lo corra anche la Chiesa e la nostra religiosità, incluso il nostro modo di essere preti e di servire le comunità che ci vengono affidate.
Quante aspettative sui preti! Quante attese sulle spalle di questi “superuomini” da strapazzo per i quali non pregheremo mai abbastanza! E quanti guai noi stessi combiniamo per questo eccesso di fiducia nelle nostre capacità e possibilità! Quanti disagi ci portiamo dentro senza farli vedere, perché non si può, non si deve… Aver collocato un Cristo crocifisso scolpito nel cirmolo della val Gardena sul sagrato della Cattedrale, con la scritta FAI COME DIO, DIVENTA UMANO, voleva e vuole essere un monito soprattutto a me e alla mia presunzione. Fa’ l’omm!
Per me oggi misurarmi con le mie debolezze e la mia stanchezza significa anche umanizzare la mia vita, già troppo sottratta alla bellezza di dinamismi, linguaggi e fantasie che ci appartengono piu e prima del nostro essere preti.
Non e più tempo di cantare “Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat. Cristo vince, Cristo regna, Cristo trionfa!”. Fosse solo per il fatto che tali manifestazioni compiacenti di solennità e di grandezza forse non sono proprio nelle corde di un perdente come Gesù.
Ormai ho il fiato corto quando devo inseguire o lasciarmi inseguire dall’ansia di una serie interminabile e pomposa di manifestazioni, riti, “cerimonie e funzioni” (alcuni ancora le chiamano cos!) che vogliono ostentare grandezza ed estetismi che poco intercettano e incontrano la miseria di tanta gente. Che non ci capisce… e non ci segue. E se non ci ostenta indifferenza spesso ci detesta.
«Ricordatevi che l’assiduità liturgica net tempio non vi riscatterà dalla latitanza missionaria sulla strada)), diceva il santo vescovo don Tonino Bello.
Vorrei tanto che raccogliessimo un po’ di umano da terra…
I “doveri” di un parroco gli impongono di sacralizzare tutto quello che gli capita sotto mano, anche sottomettendosi a sottili ricatti di piccole porzioni della comunità che si fanno scudo della cosiddetta difesa delle tradizioni. Eppure c’è tanta umanità che rimane totalmente trascurata e distante da una ritualità stanca e tenuta in vita con accanimenti terapeutici a tratti poco dignitosi e incapaci di riconoscere altre priorità. Con una moltiplicazione incontrollata di espressioni di “religiosità” assai poco popolare ma molto populista e compiacente, talvolta gettata nel grande contenitore delle offerte turistiche dei nostri territori.
Mi sta stretto tutto questo e mi colloca, per quanta mi riguarda, nella camera buia di insostenibili contraddizioni. Dove sto sbagliando? Quale Vangelo sto annunciando? E a chi?
Come scrivevo, la semplice scelta di tenere spalancata la porta di una stanza, oltre quella della nostra Cattedrale, ha fatto s1 che tantissima gente si affacciasse, tutti i giorni e senza dare tregua. Pensavo che ad alcuni proprio non va giù l’idea di solcare l’ingresso di un tempio, ma forse entrare in uno spazio più laico poteva facilitare l’incontro. E che incontro, che incontri! Dai tantissimi passanti occasionali ai nostri compaesani imbarazzati e chin ‘e scuorn per una condizione di indigenza e di fragilità inedita e insopportabile… Tanta umanità che chiede non altre messe, altri tridui o novene, altre liturgie, altre processioni o “cerimonie e funzioni”, ma solo un po’ di ascolto. Ascolto attento e possibilmente operoso. Ascolto dei loro cuori e delle palpitazioni de! cuore di Cristo.

Quanta grazia!
IL cuore di Cristo… quanto ama! Passare per tre diverse, bellissime e sorprendenti comunità parrocchiali (quella di Meta, quella di Massa Lubrense e quella di Sorrento), lasciarsi dare le misure della propria umanità dai tanti anawim, i “curvi”, i “sottomessi”, incontrati in Caritas, per me ha significato anche essere sovrastato e sorpreso da tanta Grazia! Non posso negare che spesso mi sono trovato impreparato e spiazzato, ma giocarsela non da solo ma con tanti altri compagni di cammino ha permesso allo Spirito di operare prodigi.
I bambini battezzati e quelli accompagnati nel loro cammino di iniziazione cristiana, i ragazzi e gli adolescenti dei gruppi parrocchiali e dei campus estivi, comunità incontrate in tante scuole e soprattutto nella scuola S.M. della Pieta, i giovani animatori cos1 bisognosi loro stessi di una continua “rianimazione” delle loro motivazioni e della loro giovinezza, tante famiglie e adulti alle prese con nuove incertezze che Il rendono sempre più depotenziati rispetto a strategie educative che provano a bucare l’acqua e la ribellione dei propri figli, le confraternite e la loro indurita ma generosa disponibilità a farsi guidare e soprattutto a farsi voler bene, le comunità religiose e le loro fraternita laicali pronte con i loro carismi a confrontarsi con il vissuto di una parrocchia e di una citta, il nostro coro e la potenza talvolta scombinata ma esageratamente generosa de! loro canto, un gruppo chiamato “adulti…si spera” dove si è lasciato spazio all’ascolto reciproco ea quello dei più poveri, gli amici di Rosario paralizzati dal dolore al punto da non riuscire a tener viva la tradizione di una partitella di calcio settimanale ma non rinunciando alla sana ritualità della cura delle amicizie che contano, l’allegra compagnia dell’ Officina solidale e con loro la magnifica gente che si e messa all’opera per raccontare con mille colori ed emozioni il Natale de! Signore, la banda felicemente chiassosa degli SkuatoBoys sempre alla ricerca di un tesoro e di una vittoria che possano arricchire la loro giovinezza… E tante, tante persone non intruppate e senza alcun vessillo se non quello di un’apertura senza riserve che chiedeva e chiede solo accoglienza. Oltre ad una piacevolissima maturazione di una sincera e riscoperta comunione ecclesiale in un contesto dove le differenze servivano come armi per marcare confini e disconoscere la storia e il vissuto degli altri.
In particolare poi, qui a Sorrento e in Cattedrale la scelta è stata sin dall’inizio di provare a spostare il tiro e allargare gli orizzonti, possibilmente raccogliendo i bisogni di una comunità e i suggerimenti de! padrone della vigna, e provando ad andare oltre le consuetudini e le prassi di una parrocchia 11tradizionale”. Mettere insieme un gruppo di giovani per creare un’opportunità di lavoro decente e dignitoso e investendo in questo un po di risorse ha fatto nascere prima I’ Associazione di promozione sociale JI Prossimo e il Futuro e poi la Cooperativa Ci impegniamo; in questo contesto ha trovato spazio un’altro spazio, quello aggregativo per persone con diverse abilita. Contemporaneamente abbiamo prestato ascolto ad appelli venuti da alcune scuole e genitori che chiedevano per questi stessi ragazzi l’apertura – anche per loro – di opportunità che solitamente vengono negate. Le possibilità offerte a ragazzi 11combinaguai” per i quali un periodo di messa al/a
prova ha rappresentato oltre che un dovere anche il piacere di scoprire mondi sconosciuti. E poi ancora un Oratorio bello e accogliente, aperto sette giorni su sette e fino a tarda sera, dove chiunque possa sentirsi a casa senza porre condizioni ne pretendere tessere o appartenenze particolari.
Le stesse scelte condivise a Meta e a Massa Lubrense o in Caritas, scavando e recuperando o acquistando spazi, e ancora spazi non da “occupare” ma dove far nascere e “generare processi”, direbbe papa Francesco, con le braccia aperte e la messa al bando ad ogni chiusura: le mense e i centri di ascolto e di accoglienza, campetti in cui giocare, giardini, sale dove pater svolgere le attività pastorali o dove pater studiare o incontrarsi per fare due chiacchiere o assaggiare un buon caffè…
E poi arrivano i “nostri”, che abbiamo imparato a riconoscere non più come “mostri”, giunti dal sud più sud del mondo dal quale sono partiti nel pieno di un’adolescenza fatta di sogni, di speranze e di tanta, tanta povertà. Chiamati a scegliere tra la morte certa di un’esistenza condannata alla miseria e quella probabile di una emigrazione disperata, hanno deciso di affrontare quest’ultima solcando il deserto africano e un mare che e diventato un cimitero. Quanti sospetti all’inizio, e quanti mal di pancia, anche rispetto all’iniziativa di proporre alla nostra diocesi di collocare qui a Sorrento le famiglie arrivate attraverso i corridoi umanitari. E adesso quanta conversione di mentalità, di giudizi, di modo di pensare. Quanta benevolenza da parte di tanti abitanti della nostra penisola sorrentina nei confronti di questi nostri fratelli e sorelle. Quanta ci ha fatto e ci fa bene il loro arrivo! E quanta benefica e stata per noi, prima che per loro, l’apertura delle porte di case, di parrocchie e di conventi a donne e bambini della martoriata Ucraina scappati dall’ennesimo e tragico conflitto. Quanta dolore ma quanta grazia!
Insieme a tutto questo il tentativo difficile e ostico di affacciarsi aldilà dei cancelli e dei recinti, materiali e mentali, di un orticello troppo chiuso, per discutere, confrontarci, alzare il livello del nostro pensare, del nostro parlare, del nostro giudicare la storia.
Con non poca fatica. Come dicevo ad un giovane che oltre 10 anni fa ha contribuito a destabilizzare non poco i miei equilibri, il caro Giò Antonetti, dobbiamo affrontare e sfidare un certo provincialismo culturale delle nostre comunità perché impariamo con loro a volare alto. Don Milani scriveva: “Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dia), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi e in basso, ma chi mira basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua misera, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopa Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi alla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo”.
Confesso che non e facile volare alto per “chi e un’aquila e si crede un polio”, soprattutto in questa epoca per tanti aspetti drammatica della storia in cui gli stessi governanti di tanti paesi cosiddetti “grandi” sembrano strisciare su livelli di mediocrità e di bassezza impressionanti. Ma aver invitato in Cattedrale, e in passato anche nelle altre comunità, testimoni di un certo spessore (un name per tutti, Edith Bruck) e artisti di livello internazionale, aver accolto iniziative e concerti di gruppi musicali provenienti da tutto il mondo, interagire quotidianamente con uomini e donne provenienti dai cinque continenti, e anche questa una Grazia, un dono particolarissimo fatto a questa terra e a chi la abita, che pero viene talvolta solo sfruttato o svuotato, e poi deturpato, trascurato, lasciato nell’immondizia insieme ai tanti rifiuti che si trovano nelle nostre strade a testimoniare il nostro scarso interesse per i profeti, i testimoni, la bellezza del nostro territorio e la storia, la storia di ciascuno di noi.
Una Grazia e un privilegio e stato anche l’aver condiviso con decine di associazioni e organizzazioni sociali, di volontariato e di categorie professionali una comune riflessione sulla sanità pubblica nel nostro territorio, con un’attenzione particolare agli ospedali di Sorrento e di Vico, e su alcune problematiche decisamente complesse legate al turismo. Anche questo dialogo però ha dovuto fare i conti con il disinteresse di molti, la cinica diffidenza di alcuni amministratori della cosa pubblica o l’interesse strumentale di qualcun altro, insieme a qualche pugnalata alle spalle. Ci vuole poco perché poi ci si rassegni e si rinunci a perseverare. Nonostante, e questa e stata una piacevolissima
scoperta, siano in tanti a riporre nella Chiesa e nei sacerdoti ancora dosi abbondanti di fiducia insieme a tante attese rispetto a problematiche sociali che scottano e che chiedono risposte chiare e fedeli al Vangelo.
Una preghiera eucaristica del Rita della Messa mette sulla nostra bocca queste parole: “Donaci occhi per vedere le necessita e le sofferenze dei fratelli; infondi in noi la luce della tua parola per confortare gli affaticati e gli oppressi: fa’ che ci impegniamo lealmente al servizio dei poveri e dei sofferenti. La tua Chiesa sia testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace… “. Sorrido, e un po’ mi preoccupo quando sento dire che “la Chiesa non deve occuparsi di politica11 ma piuttosto ritirarsi in una responsabilità solo “spirituale11 che eviti di esporsi in certe questioni. Pensate che prima di papa Paolo VI, fu Pio XI nel 1927, in una udienza alla FUCI, a pronunciare quasi cent’anni fa queste parole: “Tutti i cristiani sono obbligati ad impegnarsi politicamente. La politica e la forma più alta di carità, seconda sola alla carità religiosa verso Dio”. Come si può immaginare una vita cristiana che si disinteressi di certe questioni? Occorre osare di più, esserci di più.
Per noi, la cui “sorte e caduta su luoghi deliziosi” (Salmo 16), va recuperato il dovere cristiano e civile di provvedere alla custodia della bellezza del nostro ambiente, dei nostri agrumeti , dei nostri giardini, delle nostre radici, delle nostre risorse; vanno prese posizioni chiare e pubbliche di fronte all’emergere di derive malavitose e minacciose che vogliono spaventare, zittire o isolare chi prova ad alzare la testa e la voce, incentivando tiepidezze e omissioni assai poco cristiane; va incoraggiata una riflessione seria e possibilmente propositiva rispetto al fenomeno dello svuotamento dei nostri paesi, in particolare il centro di Sorrento (praticamente la parrocchia della Cattedrale), della risicatissima disponibilità di alloggi residenziali; va detta una parola anche sull’impazzimento di una città e di una penisola che ormai fa i conti perennemente con la frenesia e il chiasso, e con una mobilita in cui e diventato complicatissimo avventurarsi con un’auto o un motociclo in un traffico sempre più nocivo e velenoso, oltre che causa di numerosi incidenti che coinvolgono soprattutto i più giovani; va alzata la voce contra il persistere di barriere e di impedimenti che rendono la vita difficile anche a chi già è inchiodato all’immobilita del proprio corpo o alla fragilità della propria vecchiaia; vanno fatte scelte – e in fretta – per dare ricovero a chi dorme per strada e non ha un tetto sotto il quale ripararsi… sono troppi i senza fissa dimora morti in strada solo negli ultimi tre anni! E infine va promossa un’autentica e operosa educazione alla pace che sappia occuparsi anche della piccolezza misera e mediocre di tanti litigi, piccoli conflitti, interminabili malcontenti, chiacchiere e pettegolezzi, spesso vomitati per pura vigliaccheria sui social, assolutamente distanti e indifferenti rispetto a tragedie che si stanno consumando, nel mondo e vicino a noi.
Quanta Grazia… ma anche quanti fallimenti! Lo confessavo pubblicamente in un’omelia di alcune domeniche fa: accorgermi di essere parroco di una comunità a tratti troppo litigiosa, lamentosa, distratta e ripiegata su sé stessa mi fa ripensare al mio ministero, ai miei errori e ai miei fallimenti.
Poi i miracoli, e quanti ce ne sono, mi risollevano e mi fanno ringraziare il buon Dia. Meno male che ci mette le mani Lui! Altrimenti chissà cosa avremmo combinato…

E quanti “grazie” da dire
La lunghezza noiosa di questa lettera, che sicuramente scoraggerà molti dal leggerla per intero, mi impone di non indugiare troppo in questa conclusione non imposta dai doveri di costume ma dalla necessita di dirci che è stato bello… e buono! Tanti amici sono stati particolarmente vicini e preziosissimi collaboratori in una quotidianità in cui abbiamo provato a farci servi di una vigna e del suo padrone. Altri, solo apparentemente più distanti, ci sono stati significativamente con un affetto immeritato ed una preghiera sempre strappata, pretesa e attesa.
Come ricordo spesso, essere grati significa riconoscere ciò che si è gustato solo dopa averlo gustato. Ecco perché la gratitudine ha bisogno di essere celebrata, ripetutamente celebrata e appunto gustata, come ci ha insegnato Gesù consegnandoci ogni giorno il dona dell’Eucarestia, del rendimento di grazie… “Gustate e vedete com’e buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia.” (Salmo 34)
E chiede di tenere in alto i cuori, se non si vuole inciampare nelle vesti lunghe delle nostre cerimonie e dei nostri lamenti, sbattendo con la faccia sulla cenere del nostro peccato.
Ma è e sarà mia cura dire il mio grazie a tante persone non attraverso uno scritto ma continuando a gustare ea nutrire la bellezza straordinaria di tante Amicizie.

Un’ultima “confessione”…
Ne parlo alla fine sperando che intanto molti si siano già sfasteriat’ di arrivare fino alla conclusione di questa lettera.
La mia stanchezza da alcuni anni, seppur immediatamente non riconosciuta, ha anche un altro name. Un romanzo scritto da Giuseppe Berto nell’anno della mia nascita, il 1964, la chiamerebbe “male oscuro”. Oggi il termine decisamente più inquietante è “depressione”. Ha qualcosa di inafferrabile. E’ insidiosa, sottile, brutta. Fa male, molto male, ma non è invincibile.
Come dicevo, immediatamente non sono stato capace di riconoscerla per quanta mi sia chiarissimo da quale momento in poi ho iniziato a fare i conti con questa esasperazione della stanchezza. Le mie ansie da prestazione, il mio gettarmi a capofitto in mille iniziative e in progetti sempre nuovi mi hanno illuso di essere inattaccabile, forte, saldo, facendomi sottovalutare certe cadute verso il basso. A tratti poi il buio mi ha fatto veramente paura, lasciandomi visitare solo da una domanda: come e dove scappare? E, immaginate, le risposte – o meglio, la risposta, l’unica che si affacciava – era decisamente più preoccupante della domanda. Finche ho chiesto aiuto a chi ha competenza e esperienza da mettere in gioco. Aiuto e supporto che insieme alla preghiera e al confronto quotidiano con la Sua Parola sono diventati vie di liberazione per un esodo che si incammina fiducioso verso il compimento delle Sue Promesse.
Quando mi sono confidato con qualche amico più vicino, la reazione è stata di incredulità. Anche perché per grazia di Dio, e solo per questo, ho continuato a svolgere il mio servizio con passione e amore per la gente a me affidata senza particolari cedimenti, riconoscendo che la stessa prossimità di tante persone era ed è necessaria, oltre che benefica. Oggi ne parlo (nonostante qualcuno mi abbia sconsigliato di “sputtanarmi”) essenzialmente per due motivi: perché vi voglio bene e quando ci si vuol bene ci si racconta, e poi perché credo che questa sia una sofferenza che stringe il cuore e soffoca la mente di tanti e farà bene anche in questo non sentirsi soli e non provare a starci o a uscirne da soli.

Abbiate pazienza. E perdonatemi
Intanto perdonatemi per la lunghezza di questa condivisione. Ho voluto assecondare più un mio bisogno che la vostra pazienza. Ma soprattutto perdonatemi per tanti errori, sbagli, contraddizioni che hanno segnato soprattutto la mia relazione con questa comunità e con quelle in cui sono stato precedentemente, e con tanti di voi. So di essermi impasto in tante occasioni senza carità e con poco rispetto. Perdonatemi anche per le scelte sbagliate, certamente non volutamente tali, ma forse troppo segnate dalle mie convinzioni e poco aperte al confronto e a una sana sinodalità, si direbbe oggi. Perdonate le mie omissioni e le mie fughe. Perdonate la mia autoreferenzialità e la supponenza con cui spesso ho espresso giudizi. Perdonatemi se non sempre sono stato un testimone credibile, anche della bellezza della vita cristiana e della stessa Chiesa. Perdonate i tradimenti, le incoerenze e soprattutto le infedeltà.
E mi perdonino e siano più buoni di me i confratelli sacerdoti che hanno dovuto affrontare la “terapia d’urto”, in qualche caso da seminaristi, di una collaborazione non facile con questo rompiscatole di prete. Ho pensato a loro, oltre che al mio splendido presbiterio (vescovo compreso), quando ho deciso di condividere alcuni fremiti di questa lettera.
E chiedo perdono anche alla mia famiglia, particolarmente alle mie sorelle e a mio fratello, se nei miei sentimenti e nel mio affetto con loro sono stato un’inguaribile e ottuso analfabeta.
Ce tanto che devo farmi perdonare dal mio Signore, ma questo sarà un tempo utile e spero fecondo anche per starmene un po con Lui per ripetergli, stavolta senza stancarmi, “Signore, abbi pietà di me, sono un peccatore”. Confidando soprattutto che la nostra crisi d’amore trovi un po’ di pace.

Abbandono…?
Proprio una persona con la quale mi confronto periodicamente dinanzi alla mia inevitabile paura di terminare il mio ministero di parroco in Cattedrale mi chiedeva se lo stessi vivendo come un abbandono. La domanda ha evidentemente intercettato un po di emorragie che mi portavo e mi porto dentro. Tuttavia di una cosa sono certo, come lo ero quando ho concluso la mia esperienza a Meta, a Massa Lubrense o in Caritas: io non abbandono nessuno… e non voglio essere abbandonato.
Non ho intenzione di abbandonare il mio ministero, la mia Chiesa e il mio presbiterio, questa terra, né soprattutto le persone che mi stanno a cuore e quelle a cui sto sulle scatole. Particolarmente quanti si sono appoggiati e ai quali io stesso mi sono appoggiato durante la salita.
Semmai ho avuto talvolta la sensazione di essere stato abbandonato da Dio.
In fondo questa e l’unica cosa che mi fa tremare le gambe e sbattere forte il cuore. IL timore di essere
abbandonato da Lui… E dove vado? Da chi vado? E’ la stessa disarmata e tenerissima domanda che un ruvido pescatore di Galilea fa a Gesù: “Signore, da chi andremo?”
Non abbandono. Semmai mi abbandono, o quantomeno ci provo…
don Carmine

Padre mio, io mi abbandono a Te,
fa’ di me ciò che ti piace.
Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sano pronto a tutto, accetto tutto,
purché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature.
Non desidero niente altro, Dia mio; rimetto l’anima mia nelle tue mani te la dona, Dia mio,
con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. Ed è per me un’esigenza d’amore il darmi,
il rimettermi nelle tue mani, senza misura,
con una confidenza infinita, poiché Tu sei il Padre mio.

Sorrento, 25 gennaio 2024, Festa della conversione di San Paolo
(giorno in cui ho iniziato a scrivere queste riflessioni…)
14febbraio 2024, Mercoled1 delle Ceneri e festa di S.Antonino
(..giorno in cui le condivido con chi avrà la pazienza di leggerle)

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