“Ho il diritto di non essere condannata a soffrire”. Ha parlare così è una donna di 44 anni della provincia di Napoli affetta da sclerosi laterale amiotrofica che, dopo aver ricevuto dalla propria azienda sanitaria, la Napoli 3 Sud, il diniego al suicidio medicalmente assistito, si è rivolta ai giudici. A rendere nota la sua storia è l’associazione Luca Coscioni, mentre la donna ha presentato un ricorso d’urgenza al tribunale di Napoli.
La 44enne, che ha scelto di farsi chiamare con un nome di fantasia, Coletta, per garantirsi, al momento, l’anonimato, si definisce “una cittadina consapevole, lucida e determinata” incapace di accettare che la sua volontà “venga schiacciata da valutazioni che sembrano ignorare non solo il mio stato di salute, ma anche il diritto a non essere condannata a una sofferenza che non ha più alcun senso per me. Se in Italia non posso accedere a una scelta legalmente garantita, sto valutando di affrontare l’unica alternativa praticabile: l’espatrio per morire dignitosamente in Svizzera”.
A stretto giro arriva la replica dell’Azienda sanitaria. “In relazione al caso della signora affetta da SLA, che ha chiesto l’accesso alla procedura di suicidio medicalmente assistito, l’Asl Napoli 3 Sud, nel rispetto della delicatezza della vicenda ed esprimendo sincera vicinanza alla paziente, fa presente che quest’ultima, nel corso della visita effettuata il 25 marzo 2025 dalla Commissione tecnica multidisciplinare permanente (CTMP), in contrasto con la suddetta richiesta, ha espresso “la volontà di vivere”.
Non solo. La paziente ha evidenziato “senza indugio la speranza e la fiducia nella ricerca scientifica rispetto a nuovi e più efficaci trattamenti terapeutici per la cura delle malattie neurodegenerative”.
All’esito, la stessa Commissione ha accertato anche l’insussistenza dei requisiti previsti dalla Corte costituzionale con sentenza n. 242/2019. Invero, da un lato, non si tratta di “persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” e, dall’altro, la patologia irreversibile di cui è affetta non è “fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”.