L’incapacità di condivisione dello sguardo, di indicare, di mimare e di imitare sono segni clinici precoci di una difficoltà di “vedere il mondo dalla prospettiva di un’altra persona”. È questo il vero deficit causato dall’autismo. Antonio Parisi, del Centro studi e ricerche per le neuroscienze dello sviluppo Carl e Janice Delacato, ha scritto “La teoria del cervello autistico”, Armando editore. Secondo Parisi, i tempi scientifici sono maturi per discutere dell’ontogenesi della prospettiva.
Il libro sarà presentato sabato 12 marzo, alle ore 11, nella chiesa dei Servi di Maria a Sorrento. Interverranno con il moderatore Francesco Pinto e con l’autore, il pediatra Salvatore Di Maio, il neurochirurgo Pierpaolo Nina, il neuropsichiatra infantile Rosario Savino, il neurofisicopatologo Vincenzo Simonelli e l’anatomista Michele Papa.
L’autismo fu diagnosticato circa ottant’anni fa da Leo Kanner. Nei primi 40 anni i medici hanno sostenuto la genesi dinamica della patologia. L’autismo veniva interpretato come un difetto della “res cogitans” secondario ad un’anaffettività materna. Le terapie proposte erano: una presa in carico psicopedagogica del soggetto autistico, un trattamento logopedico e psicomotorio per i suoi ritardi, un trattamento analitico per le madri.
Dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso gli specialisti hanno abbandonato tale “idiozia”ed hanno affermato che l’autismo fosse di natura biologica. Questa volta, la genesi non andava individuata in un rifiuto materno bensì in un difetto genetico trasmesso dai genitori, capace di modificare il comportamento del bambino. Le terapie proposte erano mirate a modificare il comportamento (Teacch, Aba).
Dopo ulteriori 40 anni è forte il desiderio di rompere definitivamente con il passato e di porre al centro dello studio non il comportamento atipico bensì il neurosviluppo anomalo L’autismo è un quadro clinico consequente ad un neurosviluppo anomalo fin dalle prime fasi. L’incapacità di condivisione dello sguardo, di indicare, di mimare e di imitare sono tutti segni clinici precoci di una futura difficoltà di “vedere il mondo dalla prospettiva di un’altra persona”.
È questo il vero deficit di un soggetto autistico: lo sviluppo della prospettiva.
“Ho scritto e pubblicato questo libro, La Teoria del cervello autistico – Armando Editore, perchè penso che i tempi scientifici sono maturi per affrontare una serie discussione sull’ontogenesi della “prospettiva” – sottolinea Parisi -. La psicologia dello sviluppo ci dice che, un corretto sviluppo della prospettiva richiede innanzitutto un corretto apprendimento del proprio corpo.
Dall’osservazione clinica dei soggetti con autismo emerge che l’interazione corpo/cervello è atipica. Questo dato, oltre all’età di insorgenza dei primi segni e sintomi, ci invita a prestare attenzione a quelle parti del nostro cervello che mappano il corpo, oltre che la selezione delle informazioni sensori-motorie. La clinica ci mostra che intorno ai 14-18 mesi, alcuni cuccioli d’uomo, per una imprecisata noxa patogena, cominciano a manifestare alcuni segni clinici: chiamati non si girano, invitati a salutare con la mano non lo fanno, afferrano adoperando una pressione maggiore di quanto non si rendano conto, la comunicazione non progredisce mentre il linguaggio verbale non si sviluppa, il loro sguardo drammaticamente cambia, così come la mimica emozionale.
Progressivamente vedranno compromesse il conseguimento delle tappe del nostro divenire “esseri sociali”. Infatti, qualche mese dopo (24 mesi), manifesteranno difficoltà sia nella sfera relazionale (apparente disinteresse per l’altro) che in quella della comunicazione verbale (linguaggio scarso o assente). Se queste due sfere dovessero avere una genesi separata dovremmo ammettere che quel bambino è affetto da qualcosa di incredibile poichè, nonostante la giovanissima età, il suo sistema nervoso sarebbe stato colpito da due differenti patologie. Se le difficoltà relazionali dovessero essere secondarie al deficit verbale (il 50% dei tecnici crede in questo), allora dovremmo spiegare il perchè bambini sordo-muti non manifestano le stesse atipie relazionali. Se il deficit verbale dovesse essere secondario alla chiusura relazionale (l’altro 50% dei tecnici sostiene questa tesi), non avremmo percorso molta strada nel sostenere tale ipotesi poichè dovremmo chiarire la genesi della chiusura relazionale.
Ho pensato che sarebbe stato più corretto affrontare la questione da un’altra prospettiva: considerare lo sviluppo del linguaggio e lo sviluppo della relazione conseguenze del processo di organizzazione neurologica o neurosviluppo”, conclude Parisi.