La chirurgia “umana” del professor Franco Corcione

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Mi chiama un collega: “Caro Francesco, ho in cura una signora di 56 anni che ha un grosso cancro allo stomaco estesamente infiltrante le strutture vicine ed il pancreas. L’abbiamo sottoposta a sei cicli di chemio ma la massa non si modifica. La signora è giovane, comincia a non alimentarsi e a dimagrire. A questo punto, credo che l’unica speranza è tentare un intervento di chirurgia extreme anche perché è giovane e non ha metastasi a distanza. Te l’affido”.

Vedo la signora. Sul viso sorridente traspaiono i segni della sofferenza, legati alla malattia e alla chemioterapia praticata. La visito e palpo una massa enorme che modifica il profilo addominale in qualcosa che è veramente estreme per chiunque. Guardo la signora e le chiedo: “Cara signora, abbiamo una sola carta da giocarci: tentare un intervento ai confini della chirurgia togliendo lo stomaco con tutti gli organi a cui aderisce: pancreas, milza e colon. È rischioso, direi impossibile ma non abbiamo altre chance e, se vuole, ci proveremo”.

La signora con il suo dolce sorriso mi guarda ed esclama: “Professore sono nelle sue mani!”. Che bella frase. L’avevo quasi dimenticata. La si pronunciava sempre molti anni fa quando ero un giovane chirurgo, per qualunque patologia. Poi la tecnologia ed il contenzioso medico-legale l’hanno fatta sparire trasformando l’atto chirurgico in un meccanismo, direi quasi aritmetico, dove il rapporto umano è sempre più trascurato. Che bello sentire ancora la fiducia di un essere umano che si affida ad un altro essere umano per essere salvato. Senza condizionamento e con tanta speranza. O tempora o mores.

La opero ed effettivamente si tratta di una massa enorme che parte dallo stomaco ed infiltra vari organi: il pancreas in primis ma era previsto e vado avanti, anche il colon è infiltrato ma vado avanti perché posso comunque procedere, fino a quando cerco di circondare la vena principale dell’intestino che è completamente invasa dal tumore. “Ahi! Maledizione, non posso più andare avanti. Adesso mi devo fermare!”. Resto minuti che sembrano ore a riflettere ad alternative chirurgiche, cercando una possibile soluzione. Dopo più di un’ora di esplorazione chirurgica, di dissezioni difficili, di speranza ed entusiasmo devo purtroppo fermarmi e prendere la decisione più difficile per me. Mi devo fermare: niente da fare, la battaglia è persa. Mi sento sconfitto. Aspetto il risveglio della signora per spiegarle l’intervento.

“Purtroppo signora, non sono riuscito ad asportare niente perché la massa è andata oltre i confini della chirurgia estrema”. La informo inoltre, di aver già preso contatto con l’oncologo per iniziare a breve una nuova chemio più efficace, anche per darle conforto e speranza di un’alternativa terapeutica. La signora ancora una volta mi sorride e mi dice: “Grazie, professore, per tutto quello che ha fatto perché sono sicura che ce l’ha messa tutta”. Ci stringiamo le mani e ci guardiamo negli occhi, devo sforzarmi per nasconderle le lacrime. Come sarebbe bello e come gioverebbe a tutti il recupero del rapporto chirurgo paziente. Grazie dolce signora dal bel sorriso. Mi ha dimostrato, ancora una volta, che il mio lavoro, ancorché difficile e non sempre vincente, è sicuramente il più bello del mondo.

Pubblichiamo la lettera aperta inviata a Il Mattino dal professor Francesco Corcione, Direttore del Dipartimento di Chirurgia dell’Azienda ospedaliera dei Colli e past president della Società italiana di Chirurgia.

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